Mauro Martoriati: Verità dell’intendere e del sentire

di Renato Civello - 2006 (critico d'arte)

Con sincero piacere e senza riserva alcuna, né in ordine alla professionalità né sui contenuti, do la mia testimonianza per Mauro Martoriati, pittore e scultore di razza, che merita di  essere apprezzato come  presenza tutt’altro che trascurabile della figurazione contemporanea. Si noti che ho scritto figurazione: mi sono sempre rifiutato di distinguere il cosiddetto figurativo dall’astratto e dall’informale: l’unica demarcazione possibile è nella tematica di matrice realistica e in quella che tende invece ad esasperare concetti e avvertimenti spesso in soluzioni di segno, di cromìa, di struttura che azzerano qualsiasi analogia visiva. Nel caso del quarantottenne artista romano ci troviamo di fronte ad una varietà di esperienze (la cui impronta unitaria di base non potrà sfuggire a chi abbia dimestichezza con tale spinoso settore) legittimate da una pressante ansia gnoseologica e dall’ardore dei suggerimenti d’anima. Personalità complessa, che pensa e intrica il pensiero con le infinite pulsioni di una inquietudine esistenziale.

Non starò qui a seguire dettagliatemente il processo del suo itinerario creativo; anche perché esso si enuncia, in compiutezza, nelle note biografiche autoredatte. Ma dirò soltanto che in esso si delineano, decisamente, gli stimoli e gli approdi di un generoso e bruciante vitalismo. Le tappe evolutive di Martoriati hanno una loro favolosa esemplarità. E agli occhi dell’esperto, amalgamate come sono dall’assenso interiore, non presentano abiure e contraddizioni formali. Dagli esordi, appena tredicenne, con le piccole immagini della Roma sparita vendute a Piazza Navona ai turisti, alle creazioni polimateriche di questi ultimi anni fino alle applicazioni e smalto su tela dell’anno in corso che sono state intitolate White - il bianco assoluto,  il “silenzio che copre tutte le voci”-, il tragitto fa sempre i conti con le intimazioni di coscienza. Che urgono in ogni fase del vivere: nei soggiorni a New York, a Madrid, a Parigi, persino, forse, come superiore rifugio rispetto all’effimero e al protocollare, nella costruttiva serenità di Anguillara Sabazia, dove oggi il pittore-scultore risiede e lavora. Prima di un’analisi, di necessità sommaria, della produzione di Martoriati è giusto porre nel dovuto risalto, come prerogativa ai nostri giorni sempre più rarefatta, la dote della professionalità. Gli è servito senza dubbio l’aver lavorato, da giovane, per imprese di restauro di chiese e palazzi storici.

Accostiamoci ora, premessa la caratura filologica dell’espressione, a qualche specifico aspetto di un linguaggio che promuove, rimanda e arditamente innova. Non è difficile individuare in primo luogo certo espressionismo “deviato”, che accoglie, magari, le vocazioni esistenzialistiche della Brücke dresdiana, talvolta al limite del surreale,( i Kirchner, gli Heckel, e poi i Nolde, i Van Dongen, i Müller non lo hanno lasciato indifferente); ma, di là di un percorso che può avallare, nella  improprietà di un superficiale riscontro, plausibili omologazioni, la sommatoria conclusiva delle varie componenti e delle interne assunzioni è personalissima. Lo smalto su tela Interno mediterraneo, impegnativo anche per le sue dimensioni (metri 3,70x4), esprime, sì, per i tramiti di una proiezione patetico-sociale, ”la volontà di rendere omaggio a Guttuso, Severini e De Chirico”; ma del primo evita l’ipertrofia realistica, del secondo modera l’uso dei colori puri dopo l’influenza esercitata dal futurismo di Boccioni e di Balla, del terzo riporta in ambito naturalistico lo sconfinamento metafisico. La figura centrale della donna, il cane, la frutta dichiarano, con ogni altro dettaglio, una felice “contaminatio” che finisce con l’essere contestualmente liberatoria di una spiccata individualità. La ricerca bruciante “dell’infinito se stesso” è tradotta in ammirevole sintesi nella tela Il Mistero dell’Amore immortale, che in fondo riflette una energia accusatoria nei confronti di una malintesa accezione dei tagli di Fontana e dei sacchi incatramati di Burri.

La meraviglia di una illusoria volumetria plastica è in Anima Mundi, un corpo rovesciato diagonalmente in bigio unitonale su fondo nero. L’impatto con quest’opera coinvolge in una speculativa drammaticità. Nel polittico Scorie della memoria di metri 2,70x6, eseguito nel 2001, lo stesso anno in cui realizza in ferro riciclato il leggendario Guerriero degli Anguillara, troviamo un’affollata aggressione di fantasmi evocativi che sembrano attualizzare, coniugandoli in termini di audace contemporaneità, i boulevards del citato Severini con le maschere di Ensor. Nel 2003 porta a compimento il progetto ideato qualche anno prima di 16 sculture in ferro di due metri di altezza su gli Scacchi, tema proposto anche in una versione in tecnica mista nella quale convergono, con effetti in apparenza differenziati, ma che riportano tuttavia alla stessa genesi emotiva e teoretica, materie diverse, come colore, metallo e tessuti fibrosi. Martoriati ha chiamato in causa Enrico Baj, ma il suo stile, calibrato e colloquiante, non è poi tanto vicino alle esasperate fughe del milanese passato dalla giurisprudenza alla pittura.

La recentissima esclusione del rimando oggettivo, con l’avvento dell’accennato bianco assoluto che copre le Percezioni, certifica ulteriormente l’insanabile doloroso disagio dell’uomo che scava nel labirinto dell’essere e interroga le sconosciute latitudini delle cose e dello Spirito, aspettando che gli sia rivelato, per travagliata conquista o superiore illuminazione, il sentiero salvifico.

Sono attivo, da mezzo secolo e passa, e con un inguaribile desiderio di meglio conoscere, nel campo della creazione estetica e letteraria (nel secondo sussiste anche il mio modesto inserimento). Ma devo ribadire la convinzione espressa in apertura di questo mio scritto. Non è frequente l’incontro con una personalità che sappia affiancare, come Martoriati, la ricca fioritura delle immagini, nate da elitaria condivisione ma armonizzate da una individuale concezione del linguaggio artistico, ad una sofferta e martellante febbre metafisico-sentimentale. Che dilania ed insieme rigenera edificando. Che decanta il filosofare del compiacimento intellettivo per restituirlo alla esplorazione, non certo indolore, del nostro mistero.